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SOS alla Sanità: mai vista tanta miseria

Da tempo la Fondazione Alessandro Pavesi ONLUS lavora con i giovani alla Sanità, un quartiere difficile per la diffusa povertà non solo economica, ma anche educativa, e che in questo periodo di emergenza sanitaria e di forzata quarantena vede la situazione precaria di molte famiglie diventare drammatica. Così come in molte altre zone delle nostre moderne “periferie” sociali, al Rione Sanità, dove 50.000 abitanti sono racchiusi in meno di 5 km2, la situazione è oggi di emergenza: chi viveva di espedienti giornalieri non ha risorse per vivere, i più fragili sentono più forti le “sirene” di un’economia parallela ai margini della legalità: fornire loro aiuto e assistenza significa tentare di offrire loro un’alternativa.

E’ ciò che sta facendo la Fondazione San Gennaro di padre Antonio Loffredo anche con l’iniziativa “Nessuno si Salva da Solo” per assicurare cibo e farmaci a 200 famiglie per almeno tre mesi, ed è quello che anche noi cerchiamo di fare in silenzio, spinti dal medesimo desiderio di non lasciare indietro gli ultimi, i più fragili.

Abbiamo ricevuto questa toccante testimonianza da suor Lucia con la quale da anni collaboriamo nel nostro quotidiano doposcuola alla Sanità, una donna che gira per i vicoli del Rione per incontrare proprio gli ultimi, quelli che la nostra società a volte lascia indietro.

Camminando a piedi

Non riesco a portare il peso di tanta gente che chiede da mangiare, da pagare l’affitto.

Mi pesano sul cuore le parole di lamento. Immagini mai viste prima, qui al Rione Sanità, pur conoscendo la povertà che incontravo ogni giorno, ma questa che vedo oggi è di più: è miseria.

Dopo qualche giorno dall’inizio della quarantena,  scelgo di muovermi per strade e entrare nelle abitazioni. Ho decine di numeri telefonici e indirizzi, inviati da tantissimi messaggi supplichevoli di bambini, mamme, papà. Resta fissa nel mio cuore  la voce dei bambini: “suora, non c’è nulla da mangiare in casa”. Mi sollecita a camminare e a entrare in contatto con famiglie e case conosciute o totalmente impreviste. Penso che sia bene avviare un percorso più familiare, di amicizia. In fondo a una viuzza che interseca una stradina che ho percorso mille volte c’è una porticina che non avevo mai notata: in una stanza senza finestre e quasi senza mobili vive una deliziosa giovane coppia, che aspetta il primo bimbo. Lui è scultore, con le sue mani plasma la creta in opere d’arte, lei è piena di emozione e si accarezza il gonfiore della pancia. Al momento nessuno dei due lavora, ma esprimono fiducia per un futuro che chissà cosa riserverà loro.

Un altro vicolo. Sulla seconda rampa dei gradini, in fondo, a rasentare il muro, c’è una piccola porta. Qui vive una famiglia con due bambini. Il papà stende i panni sullo stendino fuori la porta, dentro la mamma ha già lavato e pettinato i piccoli, che si muovono curiosi alla nostra vista. Disegnano, un fustino di detersivo è stato trasformato in porta pastelli. Il papà lavorava sul mare, è un pescatore, ma adesso tutto è fermo.

Su per una salita busso e qualcuna mi dice di attendere un attimo, perché la scaletta angusta e ripida può essere pericolosa per me, ora anziana. Ma io salgo in fretta e mi trovo su un pianerottolo con una porticina della mia altezza, circa un metro e mezzo. Resto sulla soglia, una bimba serena gioca su un cassettone mentre la nonna lava e riordina. Io vedo solo una striscia di camera, l’altra parte è nascosta dietro una tenda e un armadio. La bimba con una bambola in mano si mette a cantare. Mi coglie di sorpresa e sento che i mondi dei bambini sono immensi e forse ciò che per me è soffocante per loro è una reggia.

Vado su un’altra strada, frequentata da me più volte al giorno, ma quando arrivo mi dico “non è questa”, torno indietro e ricomincio a guardare attentamente, mi sento spaesata. E’ come se quel labirinto di strade e vicoletti, da me conosciuto perfettamente, mostrasse adesso un altro volto. Telefono e la giovane donna, di cui avevo sentito parlare per le estreme necessità, mi aspetta sulla strada vicino alla porta. A passo rapido la raggiungo e rimango stupita. Le chiedo: “ma qui non abita una signora malata?” .“ Sì, abita lei e suo marito, io con mio marito e la bimba, e un altro signore”. Mi manca il fiato, perché sempre dalla soglia avevo intravisto questo basso scuro, senza finestrella, perché più volte avevo raggiunto la signora malata, per quel legame creatosi di fronte alla malattia. Non sapevo che vivessero in sei, in uno spazio così angusto e angosciante.

Incredibile riuscire a pensare diversamente ciò che ormai si dà per scontato per le esperienze già acquisite.

A pochi passi da qui, da un balcone mi sento chiamare “sotto casa c’è una famiglia con una bambina più piccola di mia sorellina e non ha da mangiare”. Mi fermo, entro nel cortiletto scuro, con i mattoni sconnessi e mi arrampico sulla scaletta dai gradini molto alti. Al primo pianerottolo si apre una porta lunga e stretta e si affaccia una dolcissima signora, dietro il marito con la bimba. Fanno un passo indietro per farmi entrare, ma io sgomenta resto lì a balbettare poche sillabe di fronte a tanta miseria.

Chiudo la bocca di fronte a queste situazioni diffuse e tocco con mano quale prezzo sono costretti a pagare tante famiglie.

Ore 10,00, busso al basso di via T n 5. Si affaccia un giovanissimo papà e m’invita ad entrare: sul lettone c’è la mamma 18enne, che scambia tenerezze con il suo bambino. E’ l’icona vivente del Natale. Nella sua povertà e nella sua gioia.

Più avanti entro in un altro basso, i genitori mi aspettano, la bambina che ho visto nascere è autistica. Ora dorme tranquilla, l’emozione diversa in tutti e tre segnala cammini del cuore e una comunanza di pensieri e di sentimenti.

Pochi minuti fa sono andata in un palazzo fatiscente, in una lunga strada del mio quartiere. Pensavo di trovare una mamma con un bambino appena nato, ma ho trovato cinque giovani famiglie ammucchiate. Nella casa gli spazi sono angusti, separati da tende, è difficile muoversi fra mobili vecchi e molte valigie, segno del viaggio pieno di speranza verso il nostro paese. Una giovanissima tra altre mamme mi ha presentato il bambino di due mesi. Ho il fiato sospeso. Sotto ci sono altre 7 famiglie, di età leggermente più matura. Chi mi conosce esce a salutarmi e ciascuno dice qualche parola sul proprio disagio. Sempre con grande dignità e rispetto si accumulano storie di malattie, povertà, mancanza di lavoro e di prospettive. Incredibile ai miei occhi e alla mia immaginazione. Sto parlando di una realtà sconosciuta su una strada vicina e obbligatoriamente frequentata da me.

In questa stessa strada, abita una signora che conosco da tempo, sempre sicura di sé e ben vestita. Poi per un po’ non l’ho vista più. Adesso scopro dietro questa apparenza e dietro questa assenza, un dramma. La donna è stata in prigione, ingiustamente accusata. E scopro che ha un figlio disabile, quasi nascosto nella sua casa e nessuna risorsa per mantenere la sua famiglia. Devo andare anche da lei, che mi ha appena insegnato l’inganno delle apparenze, la necessità di andare più in fondo.

Riprendo i vicoli più oscuri, quelli che si intrecciano tra loro con scale, traversine, tra palazzi incombenti pieni di gente. I bassi, a volte chiusi, a volte con persone sedute a guardare la strada, si susseguono, ognuno con la sua storia e la sua identità. Entriamo in uno dove vivono tre adulti e un neonato. La giovane mamma sorride, le servono pannolini, vestitini e in casa nessuno lavora più. Alla fine di un vicoletto cieco c’è un cancello. L’entrata scura si apre su un cortile piccolo, pieno di donne e bambini. Sul cortile affacciano case misere, ricavate nella struttura di un palazzo abbandonato. Lo spazio aperto dà un respiro nella situazione di quarantena. Una giovane donna con tre bambini piccoli chiede con insistenza vestiti, i bambini che circolano nel cortile chiedono affetto e attenzione. Al fondo del cortile, dietro una porta sempre chiusa, vive una famiglia intimorita e pudica, con due bambini, sempre al buio. Questo cortile, nascosto, su cui affacciano i buchi neri di un palazzo decrepito,  ci indica il degrado a cui sono abbandonati gli ultimi.

Continuo a camminare e ogni tanto mi fermano persone che mi chiedono soldi. “Sono napoletano, ho cinquant’anni e non ho da mangiare”. Occhi mi guardano dalle porte dei bassi con una domanda che si ripete: “Si fermerà anche da noi? Conosce la nostra miseria?”.

Una delle mie passeggiate termina con immagini di sollievo. Alla fine di una salita, entriamo in un bel cortile di un palazzo antico, sembra di campagna. Il palazzo di tre piani è abitato interamente da persone che vengono dallo stesso paese. Si scambiano aiuto e amicizia. Una di loro ha un giardino con i nespoli carichi di frutti, alberi di arance e limoni. La ragazzina che siamo andate a trovare dice che spesso anche lei e la sua famiglia possono andare in giardino, al sole e all’aria. E la madre, con un bel sorriso rassicurante, ci racconta che la signora da cui fa i servizi non l’ha licenziata, come hanno fatto tanti altri appena  iniziata la quarantena, ma lei ha detto di restare a casa e continua a pagarla.

E’ mia delizia camminare e interrogare le strade, le abitazioni che sfuggono allo sguardo più attento e non accontentarmi mai del centro dei luoghi. Nel cammino di questi giorni ho incontrato quattro bambini autistici, accarezzo con lo sguardo i loro volti, chiudo la bocca e penso alla durezza del tempo. Mi sento grata alla vita che mai chiude i suoi ampi orizzonti e ci invita a convenire là dove stiamo portando i problemi e le inquietudini della vita di tanti e a disegnare storie di amicizia. Per questo sentire mi piace sostenere l’affido in vicinanza e in lontananza, che è il prendersi a cuore la situazione di una famiglia e accompagnarla, lasciarsi accompagnare con immaginazione e bellezza.

“Mi accarezzava dalla soglia il profumo della casa”.

link all’articolo pubblicato su Il Mattino

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